“E ‘n su la punta de la rotta lacca / l’infamïa di Creti era distesa / che fu concetta ne la falsa vacca; / e quando vide noi, sé stesso morse, / sì come quei cui l’ira dentro fiacca.” Inf. XII, vv.11-15. Dante alle rive del Flegetonte, di fronte agli occhi il Minotauro, a guardia del Cerchio dei Violenti, che si morde a vederli, la sua violenza non ha pace e su di sé sfoga tutta l’ira che asciuga la sua forza. In questo girone dell’istinto irrazionale stanno i violenti, contro il prossimo e contro sé stessi, qui sono coloro che non hanno il freno della ragione e vivono l’esplosione espressiva che tutto, sé compreso, coinvolge. In questo girone è concepito il teatro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, in scena con il nuovo debordante spettacolo dal titolo sequenziale ma anti-diegetico 7 – 14 – 21 – 28.
La violenza espressiva è la chiave drammaturgica del loro esplosivo teatro, dunque, si badi bene: drammaturgica: perché il loro lavoro è drammaturgia, una costruzione che poggia su una struttura tutta personale, viscerale, ma totalmente poggiata su un intendimento volitivo: loro hanno bisogno di dire, di far esistere davvero un concetto, non soltanto enunciarlo, ma denunciarne la pronuncia corporea, l’essenza intima e non solo esteriore. Questo non li scorpora da un fatto evidente: il loro teatro che poggia strutture fisiche, del corpo e dell’origine scultorea in cui ha origine, non smette, loro malgrado, di essere un teatro di parola, laddove quest’ultima si articola nell’enunciazione che rende il senso di un fiato, il respiro che fa vivo un corpo, il sangue sulla punta, che avvalora la lancia del combattente.
La differenza netta è legata al mezzo: Rezza/Mastrella disconoscono il simbolismo, la loro compiutezza semantica non passa per l’allegoria, ma per l’evidenza, la mostra del sentimento e del concetto come davvero appare, senza passare per alcun filtro. Il suo è rimando tutto corporale, non di ragione: è costruito su sé stesso, sulla violenza contro il prossimo che aggrava, sulla violenza contro sé che lo sfinisce. Non è dunque il pop, l’ammiccamento del pensiero a fare la costruzione di significato: il percorso è all’inverso: non è la parola obliqua che commenta l’immagine ma la parola essenziale, e quindi già di per sé figurale, ad esserne esplicazione. Ma c’è parola, questo è elemento fuori di dubbio. Allora lo straordinario performer che è Rezza sa di poter fare e dire tutto, ma lo fa con le armi che contesta: la sua crociata anti-narrazione si rompe su quella riva infernale di un suo particolare tipo di narrazione; la sua efferatezza contro la memoria che è ripetizione consolatoria del già visto, si imbatte nella replica, che contraddice l’arte performativa, si stempera nella testualità che pure esiste ed è tiranna, si scioglie nel suo linguaggio sempre nuovo e sorprendente, ma la cui forza mai cadente poggia su vent’anni di identica straordinaria espressione.
La sua potenza – dunque verbale e insieme visiva – cerca il cardine di ogni compiacenza e conformismo, di qualsiasi sciocca forma fideistica, e si propone di farlo saltare in aria, con estremo successo direi, perché la sua riflessione non è mistica ma sull’uomo, non sulla sovrastruttura ma sulla carne senza l’ombra di spirito. L’errore, l’unico di un lavoro magnifico, è proprio la sineddoche: la sua violenza efferata non distingue gli obiettivi, così costringe sé stesso a dire la parte per il tutto, la battaglia per guerra, uno sparo per una sparatoria. Ecco che il fiume in piena Rezza va a colpire con la parola il teatro – si badi non narrativo, ma performativo anch’esso – la cui figuralità è proprio quella stessa parola: può Rezza non essersene accorto? Sulle rive del Flegetonte ribollente di sangue, un uomo fatto ramo, con la voce intima di un Carmelo Bene reincarnato, grida compresso nella propria finitezza umana, provocando una vertigine inconsulta al pensiero di un errore: il Minotauro feroce che accoglie a morsi i visitatori, per troppa foga, finisce col mordere sé stesso.
Simone Nebbia