Si è creato, in queste settimane, un involontario ma splendido dialogo tra due spettacoli in scena a Milano. Si tratta de Lo zoo di vetro diretto da Arturo Cirillo al teatro Menotti, e di Morte di un commesso viaggiatore firmato da Elio De Capitani all’Elfo Puccini, due produzioni – ottime, va detto subito – che propongono un gioco di vicendevoli e suggestivi rimandi.
Sono del resto le due pièce a dialogare, fin dalla creazione: Tennessee Williams scrive The Glass Menagerie nel 1944, mentre Arthur Miller firma Death of a Salesman pochi anni dopo, nel 1949. Le dense riflessioni che Williams annota a mo’ di didascalia in apertura (“la scena è memoria, quindi irreale. La memoria si concede molte licenze poetiche: omette particolari e altri ne esagera”) descrivono bene anche le atmosfere rarefatte del Commesso viaggiatore. In entrambi i casi troviamo una narrazione ipersoggettiva, che sfuma i contorni, altera i dialoghi, non pretende di raccontare il vero; e poco importa, quindi, se ci troviamo in America, perché lo scenario è innanzitutto la mente umana. Il Tom de Lo zoo di vetro riporta indietro il calendario, rivive dinamiche familiari ormai lontane, guarda se stesso mentre si difende da una madre mastodontica e cerca di non ferire la fragile e adorata sorella Laura. E anche Willy, il venditore ormai in fallimento, cerca invano di vivere il presente, ma scivola in continuazione nel passato: un nostalgico e edulcorato ‘ieri’, quando era il migliore della ditta, e i suoi due figli i ragazzi più promettenti della scuola.
Tanto Cirillo quanto Elio De Capitani, con la loro regia puntuale, riescono a dare vita a questo fragile ecosistema di finzioni e ricordi: le luci e gli spazi creano atmosfere oniriche e febbricitanti, ci raccontano di un ‘qui e ora’ che si dissolve, trascolora, non ha più importanza. I personaggi fuggono dalla realtà perché questa non ha più alcun appeal per loro: sono insoddisfatti, delusi, frustrati. Intorno vedono una società che li stritola, lascia loro rate e bollette da saldare senza restituire in cambio nulla. È l’America degli anni quaranta questo paese di esistenze monotone e di stipendi decurtati, dove si lavora per tutta una vita per pagare una casa che – come ci ricorda Willy – diventa nostra solo quando ormai è vuota? Dove i genitori sognano per i loro figli improbabili carriere che possano riscattarli? Dove tutti sembrano cercare soddisfazioni nel lavoro e nessuno pare trovarne? Dove il nodo delle esistenze di ognuno sembra risiedere in rapporti generazionali dolorosi e irrisolti?
Cirillo e De Capitani lasciano allo spettatore la responsabilità dell’interpretazione: mettono mano al testo con delicatezza, sfoltendolo ma non alterandolo troppo, scelgono scenografie poco caratterizzate cronologicamente senza forzate attualizzazioni, non cercano l’effetto registico a ogni costo. Scavano a fondo nel testo, piuttosto, ne mettono chirurgicamente in luce ogni aspetto rilevante, ne fanno emergere tutta l’attualità e la potenza come scultori che lavorano a sbalzo. A farla da padrone, in questi drammi della mente, sono naturalmente gli attori: interpreti intensi, credibili, che si mettono visibilmente in gioco e che ci ricordano quanti talenti sottovalutati possiede il teatro italiano.
Per Lo Zoo di vetro varrà la pena citare almeno Milvia Marigliano, che trasforma l’odiosa e cinguettante Amanda in una destabilizzante madre del sud e la commovente Laura di Monica Piseddu. Il cast di Morte di un commesso viaggiatore – dieci ottimi attori, molti dei quali giovani – conferma invece la capacità dell’Elfo di farsi fucina di nuovi nomi, e di prendersi carico di un vero e proprio passaggio di consegne.
Un discorso a parte meritano i due protagonisti. Significativamente, in entrambi gli spettacoli, il regista coincide con il primo attore: si tratta di una contingenza non inusuale ma che diviene, in questo caso, fortemente significante. Tom e Willy conducono il pubblico nei meandri nebbiosi della loro mente, scandiscono il tempo dell’immaginario e del ricordo, dilatano gli istanti che hanno cambiato le loro esistenze: si comportano, di fatto, come registi in scena. Ecco perché le performance di Arturo Cirillo e di Elio De Capitani ci paiono così calibrate, e sembrano quasi trascendere la semplice interpretazione: essi diventano le guide disperate ma lucide del proprio dramma.
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