ORA dà vita ai draghi. Un’anima ai vichinghi, ai personaggi fantastici, muove leggende e rende reali i sogni. Il suo lavoro ha un valore importante e così viene considerato. Per farlo però ha dovuto lasciare il suo paese e andare nel solo posto dove i sogni valgono e rendono milioni, Los Angeles. Marco Regina ha 35 anni, lavora alla DreamWorks, non vive più qui. Ha una casa nuova, una carta verde, una moglie e una bimba che non parlerà italiano come prima lingua, ma inglese e spagnolo. Non fuggono solo i cervelli dall’Italia, negli ultimi anni ad andare via sono anche gli artisti, e i sognatori.
Andare via per lavorare fuori è storia vecchia, riuscire a farlo è una bella storia, raccontarla perché non succeda più, è provare a cambiare il finale della storia. Regina la racconta senza aria di vittoria, fa il lavoro dei suoi sogni, l’animatore. Ma i sogni su cui guadagna la DreamWorks sono nati tra i sassi di Matera, gratis.
Indipendente dal 2004, lo studio dove va ogni mattina è stato fondato nell’ottobre del 1994 da Steven Spielberg, Jeffrey Katzenberg della Walt Disney e David Geffen della Geffen Records. “Spielberg passa spesso qui, ormai è fuori dal consiglio di amministrazione, viene a vedere cosa produciamo da amico”, racconta. Spielberg passeggia nei giardini degli studi. La Dreamworks coltiva creativi. I creativi animano draghi volanti. I draghi vincono Oscar.
Da quando sta lì, Regina in cinque anni ha partecipato a Shrek 4 (animando Shrek), Kung Fu Panda (animando Po, il panda), Il gatto con gli stivali (animando il gatto), Le cinque leggende (il Babbo Natale tatuato) e ha appena terminato Dragon Trainer 2 (How to Train Your Dragon), scritto e diretto da Dean DeBlois. È il secondo capitolo della trilogia tratta dal libro di Cressida Cowell. Il primo Dragon Trainer è stato candidato all’Oscar nel 2011 come miglior film di animazione, ha incassato 490 milioni di dollari ed è diventato il più grande successo della DreamWorks, senza considerare la saga di Shrek.
“Questa seconda parte sta costando piu di qualsiasi altro lungometraggio di animazione, e sarà il film su cui lo studio ha deciso di puntare. È un successo garantito al 90 per cento ed è il seguito del primo dove Hiccup e Sdentato, il drago, sono cresciuti”, racconta. La trama di Dragon Trainer 2, che da noi uscirà il 19 giugno, è complessa per un film che deve adattarsi a bambini dai 4 ai 90 anni. “Hiccup ha vent’anni, ha costruito utensili nuovi per poter volare meglio con Sdentato, e come si vede dal trailer ha anche costruito una tuta alare. Ci sono molti colpi di scena, come l’incontro di Hiccup con la madre dopo tantissimo tempo, la loro battaglia insieme alla guida di un discreto esercito di draghi. L’aiuto del possente Bewildebeast e la spietata armata di Drago Bloodfist. Devono difendere Dragon Mountain e liberare i draghi prigionieri. Sembra di vedere Il signore degli anelli e lo studio non ha risparmiato soldi, non c’è nessun dettaglio che non sia stato animato, modellato e illuminato a perfezione. Che il film piaccia o meno sarà un punto di riferimento difficile da superare. Uscirà in estate mentre il capitolo conclusivo della trilogia è previsto per il 18 giugno 2016”.
Marco Regina ne parla con un entusiasmo che resta in proporzione alla sua delusione. Lui che i primi bozzetti ha cominciato a sognarli a Matera, dov’è nato. Guardando i film Disney dal proiettore che il papà aveva a casa. Pinocchio, La carica dei 101. Sogni importati.
“Da piccolo ho sempre disegnato, ma farlo poteva restare solo un hobby, da noi non ci sono scuole, solo tempo che scorre e che ti dicono, non puoi perdere così. Mi sono spostato a Firenze per fare architettura, la sola forma artistica che il mondo sembrava accettare, l’unica legalizzata, ma il sogno restava. Mi si era conficcato in testa vedendo lo speciale di Il principe d’Egitto. Si vedeva lo studio di animazione ed era pieno di europei. Io non sono un genio, non sono in grado, mi ripetevo solo questo. Perché qui da noi impari a vedere tutto da lontano, lo guardi e lo consideri irraggiungibile”, spiega al telefono. Da lui è mattina, al lavoro ha un orario flessibile, può entrare quando vuole, l’importante è garantire la produzione. A Firenze riesce a entrare in un piccolo studio che aveva finito La gabbianella e il gatto. Va a Torino. Poi a Berlino per Piccolo orso polare. Lavora disegnando a mano. Torna a Milano per Johan Padan a la descoverta de le Americhe di Dario Fo. Diventa un uomo in viaggio.
“Era un buon film quello ma non potevo restare in un posto. A volte pagavano, a volte no, la maggior parte no. Dovevo fare due lavori, cambiare casa. Ho cominciato sul computer imparando da solo e sapendo di essere diventato scomodo per l’Italia. Stavo cominciando a disimparare. In più costavo, avevo capito il meccanismo e i trucchi usati da qualcuno per vendere progetti che poi non si realizzavano, come quelli, tanti, venduti alla Rai e mai fatti. Ci sono o c’erano delle leggi per salvaguardare il lavoro, il 60 per cento di un film sovvenzionato dallo Stato deve essere fatto in Italia, il resto può andare fuori. Ma il dipartimento più grande, il cuore dell’animazione dovrebbe essere italiano. Creare mano d’opera significa spendere troppo, quindi finiva che solo lo storyboard si faceva da noi e il resto andava in Cina. Io ero scomodo perché per la qualità richiesta sarebbe bastato anche uno studente”.
Alla fine Regina si trasferisce in Spagna, come succedeva a molti qualche anno fa. “Da noi si approfittano, sei un ragazzo e non ti pagano. Io facevo la fame. Se volevo continuare e salvare la mia passione me ne dovevo andare”, continua. Mentre in America uscivano Gli incredibili, lui tra Madrid e Santiago de Compostela, lavora per 4 anni a Don Chisciotte della Filmax, poi a Planet 51. “Avevo 25 anni e ogni anno venivo tra Los Angeles e San Francisco. Guardavo la DreamWorks, la Pixar, e prendevo contatti, mettevo da parte soldi, mi ospitavano, cercavo di migliorare di livello. Il curriculm che fai in Italia non vale, il mio l’ho cominciato in Spagna. E io quello ho spedito oltreoceano. Mi hanno chiamato il giorno dopo averlo ricevuto”.
Succede così. Lo sottolinea. Ti chiamano. Siamo richiesti, lo saremmo. “È necessario raccontare storie di gente all’estero che ha fatto qualcosa di positivo. Persone che diano idee nuove, perché molte volte possono essere rivoluzionarie, piccole alternative quotidiane per far uscire una parte della popolazione dall’assuefazione, dall’idea di irragiungibile” spiega. Ad agosto l’istituto italiano di Cultura di Los Angeles lo ha premiato con un award, in rappresentanza di un ramo degli artisti italiani in America.
“In DreamWorks io do vita ai personaggi. Quando sono arrivato ero tecnicamente inferiore, rispetto ad alcuni lo sono ancora, ma va bene, è uno stimolo. All’inizio ero terrorizzato, capivo la metà, chiedevo scusa, ci sono alcuni ragazzi di vent’anni geniali ma la concorrenza è una spinta, se perdo il posto di lavoro per un ragazzino genio, è giusto, non gli puoi spezzare le ali, l’unica cosa che puoi fare è imparare da loro, io come artista tecnicamente non sono il migliore, mi mangiano vivo, la mia differenza è nelle scelte artistiche e nell’esperienza”. E forse nei sassi. L’invito di Regina non è a scappare, ma a credere nella creatività. A smettere di dire che “tanto è inutile”, ognuno dal proprio sasso. Il suo è un invito a pretendere.
“Qui ci sono i soldi, loro prendono i migliori da tutto il mondo, li fanno vivere nel miglior modo possibile, il campus sembra una campagna toscana, possiamo entrare a qualsiasi ora, è tutto gratis, e noi italiani, europei, abbiamo una marcia in più. Sono tornato in Italia l’anno scorso ed è stato bello perché ormai la mia vocazione è salva, ma vedere la stessa situazione da cui sono andato via..”. C’è ancora Pinocchio ma da fuori ci guardano. “Ci sono scuole di formazione che prima non c’erano, è una buona cosa, ma è la struttura che deve cominciare a organizzarsi, e si può fare”. Mentre parla la sua voce, con la cadenza di un americano acquisito, cede lentamente, tornando a casa.
“Non sono a casa qui. Ho bisogno del Mediterraneo, sono stato costretto ad andare via. Ma il nostro è un Paese che impari a lasciare. Lo guardi più con frustrazione che con nostalgia, e quando vedo la televisione a volte non capisco l’importanza che danno ad alcune persone, in maniera ossessiva, mentre a noi ci cacciano, non c’è speranza?” continua. Non è possibile, non per uno che anima sogni per vivere. “Quella era casa mia. Andarsene non dovrebbe essere l’unica opzione. Bisogna lottare e cambiare il sistema, non casa. Ho 35 anni, sono vecchio per essere competitivo, ma se torno in Italia e incontro ragazzi già vecchi, mi fa paura. Dovete sognare, criticare. Sognate, criticate”, conclude. Far capire questo concetto, dare speranza e un’alternativa, è il suo sogno profondo. Sono i draghi a cui dà vita ad essere diventati reali.
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