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L’invidia secondo Tindaro Granata e la variabile pubblico

“Invidiatemi come io ho invidiato voi” di e con Tindaro Granata – fra gli altri – è un’operazione dall’equilibrio alchemico delicato: già dalla scelta del tema trattato. Racconta un fatto di cronaca – un caso di pedofilia conclusosi tragicamente – e lo fa scegliendo di descrivere un ambiente socio culturale degradato, in cui il responsabile reale, in ultima istanza, sembra essere l’invidia appunto, nel senso di quell’ignoranza, mancanza di strumenti idonei per decodificare il mondo, pregiudizio, superstizione… – “Io invidio uno che c’ha i soldi – confessa la madre della bambina – questi a me m’invidiano per queste tre camerette in affitto…” – E tutto ciò conduce alla paura; ma, soprattutto, ad un disperato bisogno di aggrapparsi a prototipi – “Che Padre Pio ti fulmini!”, maledice, ad un certo punto la nonna della bimba uccisa – come a feticci su cui proiettare un’identità altrimenti inconsistente. Già: ma se è l’ invidia, il colpevole, allora sono tutti assolti, si potrebbe pensare.

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La pièce, al contrario, sembra mostrarci come siano tutti colpevoli: la madre/Mariangela Granelli, in quanto forse non così ignara quanto vorrebbe dipingersi – in una chiacchierata con un’amica si lascia sfuggire: “Lui mi ha chiesto di fare una figlia insieme… gli ho detto intanto di prendersi la mia” e, ancora, flirtando col ‘mostro’, cittuosamente insinua: “E se poi se poi preferisci la bambina a me?” -; la nonna/Bianca Pesce preoccupata solo di salvare il salvabile: sia prima della tragedia – quando ostentava rapporti di buon parentado con la cognata della figlia, di fatto usandole sgarberie camuffate come nell’episodio della salsiccia avariata -, sia, ancor più, dopo: quando il voler sostenere la figlia, sembra essere quasi solo un atto di rivendicazione del proprio buon lavoro di madre -; il padre/Tindaro Granata, un volutamente rappresentato in modo talmente inetto da non raggiungere quasi la dignità di personaggio. E poi ci sono loro: la cognata/Francesca Porrini – sorellastra del padre della bimba -, disegnata come una donna fragile, sola, probabilmente affezionata alla nipotina, ma combattuta fra una volontà interventista nei confronti della situazione, che pure non le sfugge, e la stizza nel vedersene sempre tenuta a distanza, complici l’inettitudine del fratello, da una parte, e la ostentata alterigia della cognata, che costantemente le butta in faccia il suo non essersi saputa tenere il marito e non poter parlare, non avendo figli; e la vicina di casa/Giorgia Senesi apparentemente distaccata, ma, di fatto, pettegola. E poi lui – Paolo Li volsi -, il mostro: che non ci prova neanche, a negare; ma che con una lucidità al limite del delirante indugia in particolari scabrosi e penosi, quasi parlasse in terza persona e – quasi – imputasse alla noia – quanto lontana dall’ ennui esistenzialista: anche se poi è con la compulsione al denaro ed al sesso che, pure quella, veniva scongiurata nella dinamica borghese – la reale responsabilità dell’accaduto.

Ma, di fatto, quest’idea di un’umanità frastornata ed un po’ naive non paga. Sono tutti colpevoli – benché ciascuno accampi la propria visuale e le proprie scusanti -; sono tutti non-colpevoli, se riguardati con l’occhio indulgente, che s’illanguidisce di fronte a chi non può essere condannato per mancanza di deliberazione d’iintenti. Siamo tutti colpevoli – ce lo gridano in faccia più volte gli imputati di questo processo mediatico ed impietosamente trash. Già: ma perché siamo tutti colpevoli? E di cosa? E, ancora: chi lo stabilisce, questo? E’ qui che si accendono le criticità della drammaturgia del Granata: perché se la regia convince – un ininterrotto gioco di spostamenti di sedie, ad alludere al processo realmente tenutosi a proposito di questo fatto di cronaca vera; brandelli di finestre al lati estremi della scena a significare rapporti di vicinato improntati più al pettegolezzo, che alla solidarietà; e l’andirivieni dei protagonisti coi loro stralci di verità dai parossismi pirandelliani –, quel che forse non decolla è a tratti proprio il testo, che, se in alcuni momenti sa offrirci pagine dalla verità struggenti e disarmanti – penso al monologo della vicina di casa con la bimba o ai due momenti forti di verità della Granelli: atroce la scena in cui si trucca, specchiandosi negli occhi del pubblico/accusa e, ancor più, il delirante monologo in cui si giustifica/confessa nell’ideale rivolgersi alla bimba ‘mangiata’ dal mostro ma ‘per troppo amore’ -, in altri si appiattisce su esseri umani che, nell’intento di esser resi nella loro assurdità grottesca, rischiano di restare ben lontani da una connotazione e consistenza credibile.

Certo: poi la differenza la fa anche la scelta del registro recitativo. L’ho visto in tre momenti diversi, questo spettacolo. Al Vanghé, l’anno scorso, nell’anteprima di presentazione – dove il lavoro certo già buono ed emotivamente impattante, risentiva di una messa in scena particolarmente cupa, nonostante il tentativo di alleggerimento di certe sequenze a carattere narrativo: quella del matrimonio con balli e musiche di paese, ad esempio… -, alla prova generale – dove ho potuto apprezzare uno spettacolo maturo e coraggioso: capace di affondare in una scelta registica di caricamento drammatico dei personaggi: tanto più credibili e godibili nelle sequenze narrative di alleggerimento – e poi durante la programmazione per il pubblico. Ecco: credo che, in fondo sia stata proprio la variabile pubblico a determinare la differenza fra quella scelta coraggiosa – ma che con minor facilità arrivava a strappare la risata: un ghigno amaro, al massimo… – osata durante la prova generale all’ Elfo Puccini, dov’è rimasto in scena dal 18 al 23 di febbraio, e la retrocessione timorosa verso una messa in scena più grottesca, mi si dirà, ma – a mio modesto parere – forse soltanto più leggera e meno ambiziosa. Accontentarsi di una risata di consenso e, a questo, immolare la stessa credibilità di un attore come il Granata – che pure ha dimostrato di essere perfettamente adatto a profondità drammatiche -: ecco, questo lo reputo un atto d’ingiustizia. E lo è, ancor più, a corollario di attori tutti di intensa bravura – e – soprattutto – di una tematica delicata e difficile, che probabilmente avrebbe meritato qualcosa di più di una poco altro che riduzione teatrale di una televisiva Vita in diretta.

fattiditeatro.it

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