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“I pilastri della società” di Ibsen, con Gabreiele Lavia

I PILASTRI DELLA SOCIETA'-Federica Di Martino e Gabriele Lavia - foto Tommaso Le Pera
 

Piccolo Teatro Strehler (largo Greppi – M2 Lanza), dal 25 marzo al 6 aprile 2014

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I pilastri della società

di Henrik Ibsen, traduzione Franco Perrelli
regia Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia (il console Karsten Bernick), Giorgia Salari (la signora Betty Bernick),
Ludovica Apollonj Ghetti (Olaf), Viola Graziosi (la signorina Marta Bernick),
Graziano Piazza (Johan Tønnesen), Federica Di Martino (la signorina Lona Hessel),
Mario Pietramala (Hilmar Tønnesen), Andrea Macaluso (il professor Rørlund),
Mauro Mandolini (il grossista Rummel), Alessandro Baldinotti (il mercante Vigeland),
Massimiliano Aceti (il mercante Sandstad), Camilla Semino Favro (Dina Dorf),
Michele Demaria (il segretario Krap), Carlo Sciaccaluga (il capocantiere Aune),
Clelia Piscitello (la signora Rummel), Giovanna Guida (la signora Holt),
Giulia Gallone (la signora Lynge), Rosy Bonfiglio (la signorina Rummel).
scene Alessandro Camera, costumi Andrea Viotti
musiche Giordano Corapi, luci Giovanni Santolamazza
produzione Teatro di Roma, Fondazione Teatro della Pergola, Teatro Stabile di Torino

Foto di scena Tommaso Le Pera

Nella doppia veste di interprete e regista, Gabriele Lavia porta al Piccolo il teatro di Henrik Ibsen, mettendo in scena con I pilastri della società, al Teatro Strehler dal 25 marzo al 6 aprile 2014, il malessere, i tormenti, le debolezze della società borghese del suo tempo per denunciare la corruzione e l’ipocrisia del potere e far emergere per contro i valori di verità e libertà. Nello spettacolo, prodotto dal Teatro di Roma con la Pergola di Firenze e lo Stabile di Torino, Lavia affronta temi di scottante attualità come la menzogna sociale e la mancanza di moralità declinate attraverso i personaggi ibseniani del testo del 1877 con cui l’autore norvegese, tra i più importanti dell’Ottocento, riformò i criteri della sua produzione teatrale segnando una svolta verso il dramma sociale.

Prigioniero di un passato che lo esclude dalla vita del presente, il Console Bernick mette in discussione la sua credibilità, il ruolo sociale e il successo personale per confessare le proprie colpe pubbliche e private. “Pilastro morale della società”, Bernick vive in realtà da oltre quindici anni una vita di inganni. Ha infatti sedotto e abbandonato una giovane che per il dolore ne è morta, e ne ha lasciato ricadere la colpa sul fratello minore di sua moglie Betty, Johan Tonnesen, emigrato subito dopo in America con la sorellastra Lona. Nel piccolo ambiente borghese in cui vive, il Console è un uomo corretto, potente e rispettabile fino a quando il rientro improvviso di Johan e Lona, lo costringeranno a confessare gli errori commessi tanti anni prima. Spinto da Lona, forse l’unica donna che lo abbia amato, confessa i suoi errori e riscatta dal tormento e dal peccato la lunga parentesi in cui è vissuto.
Nella sua ansia di verità e di libertà, Bernick esalta il ruolo purificatore dell’onestà e della fedeltà del singolo contro una società codarda ed ipocrita, dominata dai pregiudizi e dalle disuguaglianze sociali e culturali.

“Su cosa fonda una società di uomini? Questa è la domanda che pone il testo di Ibsen. E lo stesso Ibsen risponde con molta chiarezza, alla fine dell’opera. I fondamenti sono due: la libertà e la verità. Non può esserci libertà senza verità, perché chi mente è schiavo della propria menzogna”, commenta Gabriele Lavia. “Del trinomio rivoluzionario francese Liberté, Egalité, Fraternité è rimasta solo la libertà. Cui si aggiunge la verità. Solo la libertà di ‘essere’ è il dovere fondamentale che fa essere ‘liberamente’ veri.
Libertà e verità congiunte nello stesso concetto. Nessuna verità senza libertà. Nessuna libertà senza verità. Libertà lo stesso della verità”.

A quasi 150 anni di distanza dalla stesura del testo che racconta l’intreccio di calcolo politico e di ipocrisia perbenista e moralista della Norvegia, Ibsen continua a riverberare sulla nostra contemporaneità la stessa domanda rimasta irrisolta: “La verità è necessaria al progresso e al vivere civile? Può una società reggere e progredire senza la menzogna?”. Il console Bernick edifica proprio sulla menzogna la sua carriera di uomo rispettabile e cittadino incorruttibile, celando nel passato una colpa inconfessabile. “Una menzogna ti ha fatto quello che sei”: a ricordarglielo sarà Lona, la sola donna che l’abbia amato e simbolo stesso della verità che tenta di smuovere la sua coscienza.
La menzogna sistematica, le ipocrisie sociali e il tentativo di negare la realtà, distruggono il mondo costruito sull’atto criminoso dell’abile e spregiudicato capitano d’industria. Sarà la donna stessa a chiamare in causa la colpa che nasconde per riscattarlo dal desiderio di ricchezza, dall’ambizione sfrenata e dal potere corrotto, in favore della libertà e della verità indicati da Ibsen come “i pilastri della società”. “La società fondata sull’ipocrisia, sulla falsità, cioè su fondamenta sbagliate, è una società ‘schiava’ e non ‘libera’ dalla corruzione”, continua Lavia. “Forse un terzo ‘pilastro della società’ può far rinascere la speranza: le donne. Tutti in questa comunità piccolo borghese hanno qualcosa da nascondere, una colpa di cui vergognarsi. Tranne le donne… forse le ‘donne’ sono il cambiamento mite che può aiutare il mondo a ‘rimettersi in sesto’”.

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