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Il malato immaginario e l’insolente Molière

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«È un gran insolente il vostro Molière con le sue commedie». Così Argante risponde all’invito del fratello Beraldo nell’Atto III de Il malato immaginario, ultima comédie-ballet del drammaturgo e attore francese Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière.
In questa pièce rappresentata al Palais Royal nel 1673, si intrecciano elementi eterogenei come la vita del drammaturgo, il suo pessimismo esistenziale e la sua professionalità; la commedia ha infatti l’intento, esplicitato nel prologo, di allietare il diletto del sovrano Luigi XIV:«Non altro si è voluto fare qui e questo prologo è un saggio delle lodi che si devono a questo gran principe; esso introduce alla commedia de Il malato immaginario che è stata concepita come momento di svago alle sue nobili occupazioni».

Con questo classico il Teatro Eliseo conclude la sua stagione. Una sala che alla terzultima replica è gremita fino alla prima galleria per applaudire Il malato immaginario, prodotto dallo Stabile di Bolzano, diretto da Marco Bernardi e con Paolo Bonacelli che torna dopo venticinque anni a interpretare il ruolo del protagonista Argante, in questa occasione insieme a Patrizia Milani e Carlo Simoni. All’aprirsi del rosso sipario, la scena sembra divisa in due parti separate da un velatino sullo sfondo dietro il quale gli attori avanzano gradualmente con indosso delle maschere, quasi fossero presenze oniriche vogliose di prendere corpo nella realtà scenica. Davanti a loro riposa, su di una grande poltrona, il nostro ipocondriaco Argante, alle cui spalle sono ordinatamente poste, le une dietro le altre, ampolle di vetro con etichette di chissà quale corbelleria medica. Il cinico pessimismo dell’autore francese viene messo in risalto dalla regia e dalla drammaturgia, interpretando il testo con sottile vena ironica, il riso è stimolato e la condizione del malato, pur nella suggestione in cui si manifesta, viene resa grottesca ed estremamente moderna. Intenerisce Bonacelli per la sua goffa autorità, a volte ribadita a voce alta e biascicata; il sentirsi incompreso nella sua malata solitudine lo rende minuto e indifeso, a dispetto del fisico imponente e della indiscutibile esperienza di padrone della scena. Il ruolo del Dottor Purgon affidato a Roberto Tesconi, e quello di Tommaso Diarroicus interpretato da Fabrizio Martorelli sono i due fiori all’occhiello dello spettacolo: misterioso e a tratti inquietante il primo, comico e “fumettistico” il secondo.

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«Tutto il vostro sapere è una chimera»; a risultare incomprensibile al commediografo Molière è la realtà che lo circonda, in cui la conoscenza medica non è che la diretta dimostrazione della vulnerabilità umana. La paura della malattia e la convinzione di aver bisogno degli strampalati medici rendono cieco il povero Argante, incapace di comprendere la falsità delle persone intorno a lui, come la sua seconda moglie o gli stessi dottori, e di apprezzare l’amorevole bontà della figlia Angelica. Per quanto riguarda il rispetto della struttura del testo originale, i tre intermezzi che lo rendono ascrivibile al genere della comédie-ballet, sono eliminati dalla regia di Bernardi; tuttavia il loro aspetto giocoso e leggero sostiene tutta l’azione scenica dalla durata di due ore circa. Le scene di Gisbert Jaekel caratterizzate da un preminente bianco candore – quasi ospedaliero verrebbe da pensare – sono però colorate dalla vitalità e dal calore delle vesti secentesche indossate dagli attori. Cromatismo dei costumi che risalta agli occhi dello spettatore come se davanti avesse un quadro, il cui bilanciamento delle tonalità rende equilibrata e godibile l’intera visione d’insieme.

Mettere in scena Il malato immaginario non è certo una scelta innovativa, né tantomeno programmarlo in cartellone, forse non sorprende neppure l’affluenza del pubblico… Ciò che resta invece degno di nota e contraddistingue questo adattamento, è la fedeltà e il rispetto per l’autore, quell’“insolente” Molière: l’aver saputo cogliere il messaggio che è sotteso al testo e oltrepassa le possibilità interpretative, offrendo al pubblico la bellezza di un classico.

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