È dal desolato idroscalo di Ostia dove il 2 novembre del 1975 Pasolini trovò la morte per mano violenta, mentre l’abbaiare di cani in lontananza squarcia il silenzio, che parte la ricostruzione della storia d’Italia a iniziare dagli anni Sessanta-Settanta e quella personale di uno dei maggiori intellettuali italiani esistiti, così come scritta da Gianni Borgna, che di Pasolini fu amico e studioso, per la regia di Antonio Calenda, in Una giovinezza enormemente giovane (in scena al Piccolo Bellini di Napoli fino a domenica 16 novembre). Ed è da un Pasolini ormai anziano, ritornato in spirito accanto al suo stesso corpo massacrato sulla sabbia, che le ideologie, gli snodi storici, le profezie contenute nel suo pensiero di poeta e narratore di una realtà non univoca, ma dilaniata dalle contrapposizioni politiche, che Roberto Herlitzka ripercorre il pensiero dell’uomo testimone, con la sua lungimiranza, delle evoluzioni in cui il Paese era e si sarebbe ancora in futuro trovato coinvolto.
«Oggi Pasolini avrebbe 91 anni – spiega il regista – e questa rivisitazione immaginaria vuol essere un omaggio al suo pensiero antesignano, profetico sul piano sociale e politico, e assieme una ricapitolazione dei momenti più importanti della sua testimonianza civile e poetica nell’ambito della grande tradizione italiana». E in effetti è un tornare indietro nel tempo quello che si snocciola dinanzi lo spettatore in una ambientazione scarna, essenziale (a cura di Paolo Giovanazzi), che fa da contraltare ad una narrazione in cui si alternano testi originali a riscritture e adattamenti, a metafora di una complessità storica ed elegiaca che solo in parte riesce ad essere contenuta nel tempo del monologo, sacrificando molto altro che si sarebbe potuto portare a testimonianza, ma che ben ne rappresenta gli aspetti cruciali, come lo stesso Borgna afferma: «Dovevo a un tempo non forzare gli scritti e i pensieri del poeta ma anche lavorare di fantasia, e sia pure con la massima verosimiglianza, per colmare i vuoti inevitabili e riempire le pagine lasciate involontariamente bianche».
Del resto è intorno a Petrolio, il romanzo mai portato a compimento da Pasolini, che l’intera vicenda drammaturgica ruota: «Una specie di “summa” di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie» così l’autore natio di Bologna lo definisce ed è qui, infatti, che avrebbero dovuto trovare posto la vita politica e amministrativa italiana, la crisi della Repubblica, le questioni legate al mondo del lavoro e del capitale, la controversa vicenda di Eugenio Cefis (succeduto a Mattei nella presidenza dell’ENI, dopo la sua morte nell’attentato del 1962), emblema dello sviluppo basato sulla quantità piuttosto che sulla qualità, con conseguenti ripercussioni sulla produzione e dunque sugli stili di vita e sull’approccio al lavoro della classe operaia, e su cui Pasolini a lungo indagò riconoscendogli un potenziale, pericoloso, ruolo in quella delicata e alquanto ingarbugliata fase connotata da servizi segreti deviati, logge massoniche, lotte di potere che sfociarono tutte, poi, nello stragismo che colpì la Nazione.
E proprio in merito alle stragi, toccante durante la messinscena diventa il momento in cui Herlitzka, dinanzi al leggio, in piedi, mentre alle sue spalle scorrono i volti delle vittime, elenca, attraverso i versi di Patmos, i morti della strage di piazza Fontana, a Milano, nel 1969, mentre quel “presente”, come in un appello, pronunciato fiero e al contempo con voce fragile, restituisce nella sua immediatezza la tragicità legata a quelle morti innocenti, così come ancora a quelle provocate dagli attentati di piazza della Loggia (maggio ’74) e dell’Italicus (agosto ’74).
Eppure – ci ricorda Herlitzka/Pasolini sin dalle prime battute – non priva di senso è la morte che serve quasi paradossalmente a dare un significato a ciò che è stato, rendendo certo e conoscibile il passato, a differenza del presente che è attraversato da incertezza; ciononostante ancora molti sono gli interrogativi che permangono su alcuni significativi pezzi di Storia italiana, così come avvolta ancora da tante incongruenze è la fine stessa di Pasolini a cui la seconda parte del monologo, in una ideale suddivisione, è dedicata, senza che alcuna teoria prevalga, ma lasciando possibile più soluzioni, compresa quella del complotto.
Ed è forse proprio nel ricostruire gli ultimi istanti di vita del suo alter ego che Herlitzka evidenzia con la sua esile fisicità, il suo incedere incerto, lento, ma al contempo pregno di quella autorevolezza e compassione nei confronti del personaggio, propria solo di un grande attore come lui, che la immedesimazione si fa più forte; che lo sguardo di Pasolini-spirito, incrociando quel corpo esanime abbandonato, mentre ancora una volta le immagini alle sue spalle tornano a enfatizzare la scena proiettando questa volta la crocifissione di Cristo del film Il Vangelo secondo Matteo, ci ricorda quanto la morte non possa mettere fine alla esistenza di alcuno, se questi con i suoi scritti, le sue affermazioni, i suoi sguardi rivolti al tempo che ha vissuto, è stato in grado di lasciare echi ancora presenti oggi, a distanza di 40 anni dalla sua scomparsa. E non è strano, pertanto, che attuali, riferite all’oggi, e per questo in grado di non lasciare indifferenti, sembrino alcune dichiarazioni circa una “destra” e una “sinistra” non più nettamente riconoscibili nelle loro differenze, così come quelle che rimandano a una divisione sociale tra borghesia e proletariato ormai confusa e vicendevolmente scimmiottata senza alcun sostrato che ne tracci davvero le diseguaglianze in termini di cultura e modelli di vita.
Ileana Bonadies