Infuria una battaglia senza sosta e pietà, mentre le spade mietono vittime e i corpi cadono nel fango, tre figure di donne in lontananza si stagliano immobili nella nebbia: le streghe. Nel Macbeth di Justin Kurzel la tragica parabola comincia e finisce nel sangue. In questo incipit di guerra il protagonista, guardando in lontananza, si accorge per la prima volta delle cassandre che determineranno il suo destino.
Justin Kurzel fa muovere i personaggi shakespeariani in lande desolate e brughiere ostili, sotto un cielo pronto a schiacciare gli uomini e le loro colpe. Sono barbari e i versi del poeta sembrano essere il tratto più evoluto di una civiltà forgiata nella morte, abituata alla violenza quotidiana. Se negli ambienti esterni la fotografia di Adam Arkapaw (tra gli ultimi lavori: True Detective) si manifesta in atmosfere scure e gelide – oppure scatenandosi nell’arancio totalizzante del finale quando la foresta andrà in fiamme –, le scene in ambienti interni sono giocate sugli accesi contrasti di candele e sotto le grandi volte di castelli e cattedrali medievali. Ma anche qui non c’è sfarzo, il potere sta tutto nel comando, nella possibilità di decidere della vita e della morte del prossimo.
Non stupisce per invenzioni narrative o registiche questa trasposizione cinematografica del Macbeth firmata dal regista australiano – e scritta da Jacob Koskoff, Michael Lesslie e Todd Louiso – nelle sale italiane dal 5 gennaio, però funziona come uno spettacolo rodato che riesce a far emergere il testo in modo autentico, con una connotazione storica precisa e un impianto recitativo che ruota tutto attorno a Michael Fassbender.
Con una macchina da presa quasi mai del tutto immobile Kurzel si dedica a intensi primi piani che hanno il compito di registrare i minimi sussulti e le più piccole variazioni, in questo senso il lavoro di Fassbender è prezioso e ricco di maestria. Il Macbeth dell’attore irlandese si presenta al pubblico già toccato dalla morte, Kurzel sembra indicarci sin da subito che l’animo inquieto del condottiero non è mai stato privo di macchia: la comunità è alle prese con il lutto di un bambino, poi la battaglia, il sangue di tanti adolescenti sui quali la cinepresa indugia più volte, carne da macello, c’è giusto il tempo di chiudere gli occhi ai defunti con delle pietre e poi bruciare i corpi con un falò. Insomma, il nostro Macbeth non era certo un agnellino prima che le streghe gli facessero mostra del sentiero insanguinato, d’altronde le due donne e la bambina, dal pallore cadaverico inasprito da dure cicatrici sul volto, non fanno altro che metterlo a conoscenza del proprio destino prima che questo si compia. Come ogni eroe tragico che si rispetti lo scozzese si trova di fronte a un bivio: realizzare quel destino o lottare perché non avvenga. Nella lettura di Kurzel è l’ineluttabilità a emergere: cosa possiamo aspettarci dal condottiero di un popolo barbaro che disegna confini e successioni al potere tra le fiamme e il sangue? Lady Macbeth, qui con il viso angelico di Marion Cotillard, è un catalizzatore ma nulla più: la ferocia iniziale della donna, fondata su una determinazione irremovibile e calcolatrice, si piegherà di fronte alla spietatezza del marito. È qui che i due interpreti devono affilare le armi, le gote di Cotillard si righeranno più volte di lacrime – nel momento più intenso quando Macbeth farà trucidare la famiglia di Macduff lei sarà ai piedi delle vittime issate sui pali in un’immagine che non può non far tornare alla mente la Madonna di Pasolini durante la Passione del Vangelo secondo Matteo – e sul volto di Fassbender invece affiorerà un sorriso leggermente obliquo e beffardo: è la follia, il sangue per il sangue, nelle sue visioni non solo l’amico Banquo, ma anche un giovane soldato morto in battaglia.
Il critico e teorico polacco Jan Kott, nel suo celebre studio Shakespeare nostro Contemporaneo, parla di un Grande Meccanismo della Storia, una sorta di macchina i cui ingranaggi sono oliati dal sangue dei carnefici e delle vittime: fatto un Re è già pronto il successore che lo detronizzerà assassinandolo. Non a caso Kurzel lascia al figlio di Banquo il compito di chiudere il film e di rimettere in moto, per l’ennesima volta, il Grande Meccanismo: vediamo il bambino allontanarsi verso il suo destino di Re imbracciando la spada con cui dovrà conquistarsi il trono.
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