Sei personaggi in cerca d’autore non lascia scampo al teatro. È la resa dei conti, il nodo che viene al pettine portando attori, registi e anche e soprattutto critici al cospetto della severa grandezza del testo letterario. Mancano pochi anni al centenario della prima edizione (1921) – che tanto clamore riscosse la sera della prima al Teatro Valle – e quasi si fatica a contare gli innumerevoli adattamenti che hanno tentato di darne rappresentazione; addirittura in talune aule universitarie qualcuno affermò che il dramma pirandelliano non fosse fatto per la scena, che le suggestioni del testo fossero talmente proprie alla letteratura al punto che nessun regista sarebbe stato in grado di strapparle alla densità della pagina scritta.
Giunto a Roma in questi primi giorni dell’anno, l’adattamento prodotto dalla Fondazione Teatro della Toscana per la regia di Gabriele Lavia approda nel nuovo Teatro Eliseo con una lunga tenitura. Lo stesso regista ribadisce: «È certamente lo spettacolo più difficile che abbia mai fatto. Quando ho cominciato a studiarlo ne ho avuto subito la sensazione. Poi ho iniziato a farlo e mi sono reso conto che è ancora più difficile di quanto mi era parso leggendolo». Torniamo dunque alla “prova”. Chiunque decida di affrontare i Sei personaggiè consapevole sin da subito di dover fare i conti con uno specifico scarto, quello tra testo e scena, teoria e pratica, vettori di un lavoro che per quanto possa scegliere di abbandonarsi alla sperimentazione resta invischiato nelle parole, crudeli nell’accezione artaudiana, dell’autore di Girgenti. Lavia dichiara a tal proposito di essere stato fedele al testo, in particolare all’edizione del 1925, l’ultima delle quattro e quella definitiva la quale, secondo il critico Guido Davico Bonino, «vuole di molto arricchire la componente del teatro nel teatro».
Della prima edizione il regista ha deciso di mantenere la battuta relativa all’ateismo del Padre («perché ciascuno ha in sé la propria realtà che va rispettata in Dio, anche quando sia nociva in noi!») sottolineando così il legame con la biografia dell’autore e ribadendo quell’«inadeguatezza dei personaggi rispetto ai temi rappresentati» individuata all’epoca dallo scrittore e critico Giuseppe Antonio Borgese. Altro intervento operato dal regista è di spostare la scena glaciale della Figliastra con la Bambina all’inizio del secondo atto (nonostante nell’originale non vi siano atti né scene, Lavia ha diviso il dramma in due tempi). In questo adattamento la pagina scritta si materializza in scena da subito, in apertura di sipario, attraverso la lettura delle didascalie effettuata da una voce fuori campo; quelle stesse didascalie che secondo fonti storiche Pirandello soleva scrivere con inchiostro rosso per distinguerle dal nero delle battute.
Dopo la descrizione di «quell’impressione d’uno spettacolo non preparato» seguirà l’ingresso del macchinista e lo scambio di battute tra questi e il capocomico mentre la Compagnia si posizionerà sul palcoscenico per procedere alla prova de Il giuoco delle parti. Uno spazio ampio e squintato con funi e luci a vista avvolge e sovrasta i ventuno Attori truccati e abbigliati come fossero usciti dai quadri Art Déco di Tamara de Lempicka: fisionomie ombreggiate da eleganti chiaroscuri, plasticamente definiti. Nel rispetto della metateatralità propria all’edizione del ’25, le sei «realtà create» entreranno dal fondo attraversando il rosso corridoio della platea, vestiti a lutto con i volti bianchi di cipria e guidati dalla figura del Padre impersonato da Lavia. Attore sapiente nel restituire un’interpretazione saggia, vestendo tanto la goffaggine impacciata e claudicante di un uomo vinto e imprigionato nell’eternità della sua forma di personaggio, quanto la filosofeggiante attitudine a trascenderla per dare vita alla propria condanna di reietto. Paterno nel rapporto con la Figliastra (Lucia Lavia) attrice scelta perché «potesse fare il ruolo, nonostante sia giovanissima, perciò ancora acerba». Difetta infatti di quella padronanza propria delle attrici più esperte; la bravura si percepisce nell’energia, prorompente, di fendere la scena con irruenti corse pervase di isteria ma ancora immatura nel gestire e calibrare l’impeto delle parole, troppo urlate, troppo impregnate di affettazione. Nell’insieme, tutto l’ensemble attoriale, sia degli Attori che dei Personaggi, soffre di un’eccessiva formalità, ostentazione ingombrante nel portare la battuta ma anche nella gestualità intrisa di barocchismi, movimenti innaturali che si allontanano – nella seconda parte in modo ancora più infastidente – da un’organicità necessaria, specie nei passaggi più drammatici. La forma deborda anche nelle posture degli Attori in scena per tutti i 145 minuti di durata dello spettacolo: immobili nelle loro pose del tutto innaturali, statue che si animano soltanto quando l’azione è richiesta dal copione.
Anche il critico viene messo in crisi, ancora nel 2016, davanti questo dramma, anche il critico rifugge dal puntare il dito, anche il critico sa che viene messo alla “prova” nella visione come il regista lo è nella rappresentazione, ma in questo caso il critico si chiede come sia possibile che la recitazione dello stesso Lavia/Personaggio si contraddistingua nettamente rispetto al resto del cast. Non dipende solo da una maggiore esperienza, ma quasi, ipotizziamo, da una mancanza di visione d’insieme della propria creatura, latita un occhio esterno che guardi alla scena e agli attori tutti con neutralità, distante quanto basta per osservarsi e osservarli da fuori. Evitando di sporcare un dramma imponente per struttura teorica e filosofica costruita grazie a quelle scelte registiche attuate sul testo che ibridano, mettendole in comunicazione tra loro, la prima e l’ultima edizione dell’opera.
Lucia Medri, teatroecritica.net