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Ascanio Celestini e il Piccolo Paese che si racconta

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Ascanio Celestini torna alla Casa dei Teatri con Racconti: Il Piccolo Paese in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo, definito da lui stesso al momento dei saluti un «presidio culturale», la cui presenza e attività nella borgata alla periferia di Roma è sempre più indispensabile e necessaria perché isolata, rispetto invece ai numerosi edifici teatrali situati nella zona del centro.
Domenica pomeriggio nonostante la pioggia, in molti hanno deciso di farsi raccontare una storia dal noto e familiare attore romano, che aggirandosi in platea prima di salire in scena, si è scusato con gli spettatori per il ritardo. Rammaricato per l’attesa, ha voluto quindi tranquillizzare i presenti che a breve, finalmente, lo spettacolo avrebbe avuto inizio. Annientando quella linea di demarcazione che divide attore e spettatore in due emisferi convenzionali chiamati palco e platea, le parole di Celestini hanno sin da subito creato un’atmosfera di raccoglimento, volta a riunire una comunità di persone in ascolto. Passando attraverso un prologo autobiografico sull’inevitabile e diffusa malattia dell’ansia, seguito da un poetico e inquietante racconto incentrato su di un uomo seduto in una stanza che guarda un rubinetto perdere acqua – ripreso poi nel finale – ci si addentra pian piano, nella storia del Piccolo Paese.
Il Piccolo Popolo del Piccolo Paese è governato da mafiosi e corrotti, quando uno dei due schieramenti è al governo, l’altro è all’opposizione, in una perversa altalena di delinquenza e ignoranza, attorno alla quale aleggia un nauseabondo fetore di carogna morta, allegoria di quei presidenti al potere che saranno poi tutti seppelliti da un indignato, ma alquanto meticoloso, becchino. La femmina che non serve che a quello, una stanza troppo grande, Tony Mafioso che perde il pisello, i politici che vanno a mangiare da Lo Zozzone, quelli che si cacano e pisciano addosso, sono «umili ma non miseri» deformati specchi della realtà nella quale anneghiamo guardandoci annegare. Celestini diventa così un grottesco imbonitore, ci fa ridere sì, sembra accattivarsi la nostra simpatia strappandoci un applauso previsto, ma al tempo stesso ci fa provare ribrezzo e vergogna per quella sporca verità, a noi così nota da volerla confermare e denunciare ad alta voce. E allora questa mai silente comunità assisa di fronte al raccontastorie decide di non ascoltare solamente, ma a tratti interrompendo commenta, interviene e loda l’attore.
I racconti, letti dai genitori quando si è piccoli o fatti attorno a un tavolo al termine di una cena, scoprendo diversi punti di vista a ritrarre frammenti di esperienze vissute, compongono dunque quell’ordinaria quotidianità che si è purtroppo soliti consegnare all’oblio, privandola del suo valore.

Cinico perché realista, comico perché tragico, Ascanio Celestini riesce ancora una volta a tracciare i contorni di uno spazio di autonomia della parola e dell’ascolto, parlandoci di noi e di quello che non vogliamo cambiare, rimanendo seduti in una stanza troppo grande a fissare un rubinetto troppo distante, nelle cui gocce decidiamo di affogare.

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