L’inconfondibile caschetto attorno al volto da eterno adolescente. Wes Anderson rispecchia fisiognomicamente il suo cinema, con cui l’ottavo contributo “in lungo” The Grand Budapest Hotel è in perfetta linea estetico-narrativa. La 64ma Berlinale l’ha voluto in premiére mondiale ad aprire il concorso e l’intera kermesse. E lui, regista inside, ha guidato nella capitale tedesca oltre la metà dello squadrone di star che compongono la sua ultima fatica. Big names del cinema internazionale contemporaneo che non hanno rinunciato a partecipare alle attività promozionali del suo film, tralasciando altri impegni in giro per il mondo benché il loro ruolo nel film conti poco più di un cameo.
Il motivo? Semplice, gli attori adorano questo regista nato in Texas nel 1969. Lo si capisce non solo dall’affollamento stellare nei suoi film corali, ma ancor meglio da come a lui si rivolgono durante le conferenze stampa, al punto da farle assomigliare a un surreale backstage sul set. Se la ridono e se la raccontano i vari Ralph Fiennes, Willem Dafoe, Edward Norton, Jeff Goldblum e soprattutto Tilda Swinton e l’attore-feticcio Bill Murray. “Wes Anderson ci fa perdere un sacco di soldi e di tempo… ma lo amiamo perché crea per noi mondi di pura magia”, chiosa l’attore apparso a Berlino col berretto alla Zissou, un vero classico dell’accoppiata Murray-Anderson. “Farei qualunque ruolo per Wes” esclama Edward Norton, seguito a ruota dai colleghi.
La magia di Wes Anderson alberga in uno stile inconfondibile con cui elabora spazi-tempi-personaggi dentro a universi in cui ogni segmento contiene almeno un’idea di cinema non banale. Nota che rileva puntualmente il vero protagonista di The Grand Budapest Hotel, ovvero l’inglesissimo Ralph Fiennes che “mai come in Wes ho trovato un regista che sa esattamente quello che vuole, dall’inizio alla fine”. E quello che Anderson voleva l’ha ben mostrato nelle 2 ore di questa sua nuova “creatura” ispirata alle atmosfere di Stefan Zweig, il raffinato scrittore viennese nonché testimone di paesaggi umani e sociali tra le due guerre mondiali. “Ho letto un suo romanzo e sono stato folgorato. Continuando nella lettura della sua opera omnia, ho capito che il mio film doveva essere zweigiano nel sapore, colore, spazio e tempo”. Per questo regista e troupe (tra cui la costumista italiana premio Oscar Milena Canonero) si sono recati in vari Paesi dell’Europa continentale alla ricerca di Zweig. L’hanno trovato nella piccola città tedesca di Görlitz, al confine con la Polonia, mentre l’idea di Budapest è arrivata – ebbene sì – dal nome di un negozio vicino alla casa di Anderson a Burbank, cioè Hollywood. In questo meltin’ pot creativo con l’aggiunta di varie pellicole sugli hotel e del mai trascurabile “master” Stanley Kubrick (a cui Wes Anderson ha dichiarato di ispirarsi sempre…) si è generata questa cine-elaborazione dadaista su un soggetto e sceneggiatura originali firmati dallo stesso regista-giocoliere. Come da suo inconfondibile stile, la macchina da presa si muove frontalmente sugli assi cartesiani, avviando il film in una panoramica orizzontale che ci mostra – centrale – un cimitero innevato.
Una donna rende omaggio a una statua in cui campeggia la scritta “l’Autore”: sotto la testa in marmo una serie di lucchetti e chiavi. Siamo nel 1985. Ma subito il tempo retrocede, posizionandosi nel 1968 all’interno di un grande albergo termale molto “stile Sixties” con chiara declinazione all’austerità comunista. Ovvio, siamo in un Paese dell’Est europeo, si respira severità, gli ospiti sono pochi e anziani, c’è aria di decadente sottomissione. Una voce narrante ci porta dentro alla fiaba, che sta per iniziare grazie al racconto che un personaggio offre a un giovane scrittore, invitandolo a cena nel salone semivuoto, nel sottofondo la onnipresente e magnifica colonna sonora di Alexandre Desplat. La storia retrocede ancora il tempo della narrazione: eccoci a fine anni ’30, nel periodo di massimo sfarzo di The Grand Budapest Hotel ed ecco apparire il protagonista, il capo-concierge Gustave H. incarnato da Ralph Fiennes. Senza entrare in merito al plot del film, di cui si rovinerebbe la visione (uscirà in Italia il 10 aprile), è inevitabile osservare che alla sua ottava prova Wes Anderson (ormai?) offra il fianco: estetica, personaggi, intrecci e sviluppi narrativi portano un marchio talmente preciso e imbrigliato nel medesimo stile da non riuscire a immaginare che questo regista possa fare dell’altro. Forza e debolezza quindi si sovrappongono, giacché se la leggerezza con cui “gioca” nella gravità (spesso i suoi film si svolgono durante storiche guerre, pensiamo al recente Moonrise Kingdom) del reale rivela la sua genialità, la ripetitività di certi meccanismi potrebbero portarlo a una stanchezza creativa. L’augurio è che ciò non accada, e se il genio del magnifico Giocoliere è tale, sarà il primo ad accorgersene per re-inventarsi.
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