«Guercino chi?». C’è da scommettere che la stragrande maggioranza dei lettori dei giornali di oggi avrà pensato esattamente questo.
Fanno davvero uno strano effetto i giornali e i giornalisti che si stracciano le vesti per il «capolavoro rubato» e per il «colpo all’arte italiana» rappresentato dal furto della spettacolare Madonna di Guercino, strappata dal suo altare nella chiesa di San Vincenzo a Modena da ladri per ora ignoti. Sono gli stessi giornali e giornalisti che additano ogni giorno negli «eventi» e nei «privati» la salvezza per il patrimonio culturale italiano. Un modello, quello, che mai e poi mai potrebbe occuparsi del patrimonio capillarmente diffuso sul territorio (il tipo di patrimonio cui appartiene il Guercino), ma che invece si concentra sulla top ten dei musei e dei siti monumentali, alimentandosi di grandi eventi e mostre commerciali. Già, le maledette mostre: non ci sarebbe troppo da stupirsi se la recente movimentazione della pala d’altare di Guercino (esposta alla Venaria Reale di Torino) avesse creato appetiti, documentato una certa facilità d’accesso alla chiesa, fatto comprendere che il parroco (per ragioni ad ora ignote) teneva spento l’allarme, pure presente.
Bisognerebbe fare esattamente il contrario: non vagheggiare speculatori privati, e non gettare soldi ed energie nel pozzo sterile degli eventi. Ma investire nella tutela pubblica che ci ha permesso di avere ancora i Guercino nelle chiese, e che i governi degli ultimi trent’anni hanno invece smantellato con pervicacia bipartisan. A Modena ci sono un soprintendente e funzionari tra i migliori d’Italia, ma senza fondi e mezzi per poter assicurare una sorveglianza capillare del territorio.
Ma il punto è che forse nemmeno l’allarme acceso sarebbe servito, e non possiamo mettere un carabiniere sotto ogni opera d’arte italiana. «L’arte, di per sé muta e indifesa, non può proteggersi che con la fama, e la fama è la critica sempre desta», ha scritto Roberto Longhi. Ecco il punto vero. Letteralmente ogni giorno sui tavoli delle soprintendenze arrivano notizie di furti nelle chiese: arredi sacri, vesti liturgiche, statue, quadri. È la carne e il sangue del patrimonio che se ne vanno, anche se i giornali arrivano solo quando i ladri asportano un organo pregiato, come il Guercino.
Ma chi di noi è andato a visitare quel Guercino, negli ultimi anni? Il problema di quella chiesa (come di moltissime altre chiese) non è di essere troppo aperta, ma di essere troppo chiusa. Il patrimonio è al sicuro finché è frequentato, noto, amato, conosciuto: le chiese si aprono ai ladri, quando si chiudono ai cittadini.
E i cittadini sono martellati da un marketing che li porta, al contrario, nelle mostre a pagamento. Perché una macchina da soldi li vuole clienti, non cittadini. In una chiesa di Bologna, Santa Maria di Galliera, c’è un’altra meravigliosa pala d’altare di Guercino, con San Filippo Neri in estasi. L’ultima volta che l’ho vista era mezzogiorno, e non c’era un’anima in tutta la chiesa. Nell’ora successiva non è entrato nessun’altro. Arrivava solo il clamore della folla, in fila nella strada: in fila per entrare alla commercialissima, oscena mostra della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer. Una mostra sul Seicento che non faceva venir voglia a nessuno dei suoi visitatori di vedere i capolavori del Seicento accessibili – gratis – dall’altra parte della strada.
Il Guercino di Modena l’avevamo già perso, ci era stato strappato dalle infinite mostre su Van Gogh, gli impressionisti, Tutankhamon e Leonardo: l’unico allarme che funziona è la nostra conoscenza, l’unico antifurto sicuro è una rialfabetizzazione di massa, una nuova educazione degli italiani.
Il Fatto Quotidiano