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“Il Sevitore di due padroni” di Antonio Latella dal 18 al 30 marzo

Servitore di due padroni388
 

Milano, Elfo Puccini – Sala Shakespeare | 18 – 30 marzo

Pubblicità / tel: +39 3460730605

Il servitore di due padroni
da Carlo Goldoni
regia Antonio Latella
drammaturgia Ken Ponzio
con Marco Cacciola, Federica Fracassi, Giovanni Franzoni, Roberto Latini, Annibale Pavone, Lucia Peraza Rios, Massimiliano Speziani, Rosario Tedesco, Elisabetta Valgoi
scene e costumi Annelisa Zaccheria
suono/ sound Franco Visioli
luci Robert John Resteghini
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro Stabile Del Veneto,
Teatro Metastasio Stabile della Toscana

Latella riparte “da” Goldoni, “da” come lui stesso spiega, perché questo Servitore è una totale riscrittura che vuole prendere forza dalla nostra tradizione per lanciarsi in avanti, nel tempo che deve venire. Parlare con la forza della tradizione all’uomo contemporaneo per Latella oggi è un dovere, più che una necessità: “Goldoni è il nostro teatro scritto, la nostra origine… Arlecchino è il nostro Amleto, non si può non incontrarlo nel proprio cammino teatrale, almeno per me.”
Nelle sue note di regia Latella scrive: “La menzogna è il tema che appartiene totalmente a questa commedia. Dietro la figura di Arlecchino (Truffaldino) la commedia si nasconde a se stessa, mente. Dietro agli inganni, ai salti, alle capriole del servitore più famoso del mondo la commedia mente agli spettatori: il personaggio che tanto li fa ridere è insieme tutte le menzogne e i colori degli altri personaggi. È uno specchietto per le allodole e sposta il punto di ascolto dell’intera commedia. Non c’è una figura onesta, tutto è falso, è baratto, commercializzazione di anime e sentimenti.
Nessuno piange il morto eppure quel morto era fratello e futuro sposo. Nessuno chiama le cose per quello che sono. Non c’è un luogo che accoglie, ma tutto resta di passaggio e la storia scopre le magagne del servitore in una taverna, i padroni tornano a vivere e i servi a vivere servendo.
Cosa resta? Il vuoto, graffiato dal sorriso beffardo delle maschere. Se togliamo i salti, gli ornamenti, la recitazione meccanica fatta di suono ma mai di testo e sottotesto, se togliamo le maschere, cosa resta?
Il vuoto, forse l’orrore della nostra contemporaneità. L’orrore dell’uomo che davanti al peso del denaro perde peso, diventa anoressico: non è corpo in un costume che tutto permette ma scheletro in un corpo che tutto limita”.

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