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La spina del Diavolo

Ambientato ai tempi della seconda guerra mondiale nella Spagna travolta da una sanguinosa guerra civile “La spina del diavolo” fa i conti con la Storia, rileggendola all’interno di una ghost story che, nelle dinamiche relazionali dei suoi giovani protagonisti riproduce le conseguenze di quello scontro fratricida. Costretti ad una convivenza forzata dagli smacchi della vita, e obbligati a lottare per la propria sopravvivenza, un gruppo di orfani reagisce ai soprusi dell’esistenza organizzando un opposizione disperata e cruenta nei confronti di un crudele persecutore. Concentrando l’azione all’interno di uno spazio circoscritto, e delegando al quotidiano il compito di costruire la narrazione, “La spina del diavolo” non si discosta dalle caratteristiche del genere, riprodotte secondo un’iconografia rispettosa della tradizione, ma aggiornata ai tempi del racconto – le guglie dei castelli diventano le geometrie lineari di un fortino in mezzo al nulla, con i magazzini polverosi e dimenticati a fare il verso alle stanze eternamente chiuse dei racconti gotici – e riesce ad agganciare la dimensione metafisica restando fedele al suo incipit di realismo. Ed è proprio la capacità di far convivere in maniera naturale i due livelli di percezione, da una parte la minaccia di un conflitto capace di distruggere ogni cosa, dall’altra il mistero di una dimensione sconosciuta ma resa umana dall’alleanza tra i bambini ed il fantasma, ad innalzare il film su livelli di eccellenza.

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Guillermo del Toro conferma la predilezione per il fantastico e lo spaventevole e l’asseconda con una tecnica che sembra fare le prove generali per il successivo “Il labirinto del fauno”, opera che di lì a poco lo avrebbe consacrato nell’olimpo dei grandi. Giocando con variazioni cromatiche, scuro e contrastato negli interni, acceso e luminoso per gli esterni, in grado di produrre un immaginario cupo e visionario, e con la fluidità di una cinepresa capace di stravolgere la leggi della fisica con fantasia e gusto iperrealista, Del Toro realizza un’opera di grande impatto e di singolare autenticità. Prodotta dai fratelli Almodovar e ravvivata dalla presenza di attori feticcio come Federico Luppi e Marisa Paredes, una delle chicas del maestro spagnolo, “La spina del diavolo” deve molto alla fresca spontaneità di Fernardo Tielve, perfettamente calato nel ruolo di chi si deve confrontarsi con un mondo più grande di lui.

ondacinema.it

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