CASCINA – Se credessimo alla reincarnazione potremmo anche ipotizzare che i ventun grammi dell’anima di Michelangelo, deceduto il 18 febbraio 1564, siano passati nella carne e nelle ossa di Galileo Galilei, nato il 15 febbraio dello stesso anno. Toscana, cinquecentocinquanta anni fa. Il genio scorre nell’aria. Chiamale coincidenze, se può essere consolatorio. Personaggio non comune Michelangelo Buonarroti, capace di dipingere, la Cappella Sistina ne testimonia ancora il tocco ed il tratto imperituro, scolpire, la Pietà o il David, come di far poesia, i suoi sonetti.
Proprio dall’incastro tra le sue opere, che scorrono dietro nel grande video, i due danzatori che si liberano dalla materia come I Prigioni ed i versi che un Alessio Boni scapigliato e potente come un ruggito leonino elargisce a chiare lettere, nasce ed affonda, come piega nella pelle, come scalpello nella roccia, “La carne del marmo” per la regia composita a quadri e strutturata in picchi di climax di Alessio Pizzech (appena tornato da un’esperienza in Norvegia, e subito dopo volato a Beirut dove dirigerà una “Cavalleria rusticana” con la Filarmonica libanese).
E’ un Michelangelo caravaggesco (Boni aveva interpretato l’autore di “Giuditta che taglia la testa a Oloferne” in una serie tv; curiosità: il nome di Caravaggio era Michelangelo) quello che, sudato, scomposto, in un amplesso di parole e linfa si lancia a capofitto nelle passioni e le assaggia e le morde e ne fa scempio e assapora con famelico gusto. E sembrano farsi vivi i suoi amori e fantasmi, che dalla materia inanimata escano figure concrete e vive e pulsanti (come il “Frankenstein” di Mary Shelley) che prestano i loro corpi ad una danza viscerale e macabra, a cavallo tra eros e thanatos, che gorgoglia e spinge, crea e distrugge, genio e sregolatezza, ed infligge e si dipana, si esalta, si sfinisce.
Boni (che già apprezzammo a teatro ne “Il Dio della carneficina” ed in “Art”, entrambi firmati da Yasmina Reza), barba messianica, restituisce lo stillicidio dell’arte in forma totalizzante che avvolgeva il genio di Caprese, tra urla che gettano sconforto nell’impossibilità di essere capito fino in fondo, nell’incapacità di creare e dare forma e sostanza a tutta quella lava demoniaca che sentiva pulsare dentro. Come un vulcano sempre sul punto di eruttare, Boni gira intorno, come squalo sulla preda, ai due danzatori-statue in movimento (con il riflettore in mano in stile kantoriano; ci ricorda l’immagine simbolo della pellicola “Rattle and Hum” degli U2 con Bono Vox che inquadra, con amore e precisione, The Edge intento e piegato alla chitarra, o quelli puntati sul pubblico ne “Un tram che si chiama desiderio” per la regia di Antonio Latella), come un vortice, un mulinello a separare, a fare pulizia.
Corre stropicciato e si accascia stremato, distrutto e disfatto e prosciugato e svuotato dal fuoriuscire dei suoi sentimenti, e, nello scambio-scontro tra i versi ed i marmi che prendono respiro ed ansimano, si realizza il miracolo della creazione. E’ un dialogo costante tra amore e marmo, tra il fluttuante ed il solido, focoso e massiccio, ruvido e levigato, come le onde scatenate nello Stretto di Magellano, schiuma e scogli appuntiti urticanti. Boni regala tutta l’inquietudine e l’angoscia del sentirsi imprigionati, del voler spezzare le catene dell’ordinario. Un ritratto molto umano, partecipato, più terreno che celestiale, più vicino al sangue, fallace e imperfetto, che alle altezze divine delle sue opere. “Lo scultore pensa in marmo”, (Andrè Gide). Ed ancora: “La vita è fatta di marmo e fango”. (Nathaniel Hawthorne, “La casa dei sette abbaini”). Michelangelo sarebbe stato capace di scolpire una rosa e di farla sembrare talmente vera da poterne sentire il profumo.
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