Erano alle stelle le aspettative per il ventesimo film di Kim Ki-duk, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2012 con il capolavoro Pietà, Fuori concorso nel 2013 con lo scioccante Moebius e tornato in Laguna con un’opera che ha aperto le Giornate degli Autori, e in cui l’autore ce la mette tutta per fare ciò che sa fare meglio: spiazzare. Da un rigo di trama – una squadra di apparenti agenti segreti cattura e tortura i responsabili dell’omicidio di una ragazza – si sviluppa una pellicola ove si fa presto evidente la (in)certezza che niente è come sembra. Soprattutto, nessuno.
Non si pensi a svolte spionistiche o colpi di scena eclatanti: Ki-duk, al solito, mira allo stomaco e alla coscienza di chi guarda, mette duramente alla prova la nostra capacità di giudizio, facendoci sedere da ambo i lati – quello degli imputati e quello di chi condanna- mostrandoci quanto il panorama sia in entrambi desolante. Non c’è pace, non arriva mai, in One on One: l’idillio familiare cela segreti da incubo o è guerra aperta, i pochi legami sinceri vengono vissuti nella sporcizia della periferia, ciò che si reputa amore è malata dipendenza e manipolazione, l’altruismo è mosso da interesse personale. Se non è un film da fine del mondo, da apocalisse dell’umanità questo, lo sono pochi altri.
Ma c’è un ma. La sensazione è che dalla potenza sconvolgente – visiva, tematica, socio-politica, poetica e via elencando – che ribolliva furente da Pietà, qui Ki-duk cerchi di riattingere mettendo in scena un dramma metaforico che ne ripropone le tematiche, facendo pressione sulle piaghe a causa delle quali il suo paese sta morendo dissanguato: “poveri che sono sempre più poveri e ricchi che sono sempre più ricchi”, una gerarchia sociale schiacciante che riduce gli esseri umani a macchine di carne e ruoli prefissati, l’alienazione emotiva che porta i bravi soldatini a compiere azioni orrende, il soccombere della coscienza individuale, la violenza che esonda ovunque rendendo quasi impossibile distinguere la ragione dal torto e trovare il vero colpevole, l’invisibile burattinaio, l’incarnazione del sistema in una massa misera e brulicante. Tutto questo si fa, nella seconda parte del film, programmatico, espresso dai personaggi come su un palcoscenico (da loro stessi citato, esplicitando la concettualità del progetto). Così One on One diventa apertamente una tragica opera morale, un trattato (anticapitalista) sullo stato odierno di un paese allo sbando, privo di bussole; diviene cerebrale, persino logorroico (la durata è francamente eccessiva) nel ribadire, ri-sottolineare la propria essenza di denuncia. E si perde quella spontaneità viscerale e pulsante che Ki-duk è solito in grado di creare.
Comunque, l’urgenza del grido, la rabbia e il coraggio (oltre che la genialità: l’idea della riscossa degli emarginati, dal cameriere al disoccupato, è bellissima) anche stavolta non mancano: e quindi in fondo, va bene così.
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